Fonte: ILPICCOLO domenica 12 gennaio 2014
Parla Sergio Bologna, guru del settore: «Sbagliato rincorrere il gigantismo. Funzionano gli scali che servono più mercati»
di Vito de Ceglia
«Da alcuni anni, diciamo dal 2006 con il varo della “Emma Maersk”, il discorso sulla portualità in Italia e il dibattito sulle
politiche portuali si mordono la coda. Gigantismo navale e fondali sembrano aver monopolizzato il confronto». Parte da qui Sergio Bologna, noto studioso triestino del settore dei trasporti e voce molto ascoltata nel mondo dello shipping, per spiegare i motivi che stanno fuorviando i modelli di sviluppo dei nostri porti. La sua è un’analisi critica che ripercorre la tesi già palesata nel suo ultimo libro (Banche e Crisi. Dal petrolio al container). Le pubblicazioni di Bologna sono considerate una sorta di “avviso ai naviganti” dalla più autorevole rivista del settore a livello mondiale, Containerisation
International. In questa occasione, Bologna offre però ulteriori spunti di riflessione.
A partire dal vero problema che, secondo lui, affligge oggi la portualità nazionale: la mancanza di una visione strategica da parte della nostra classe dirigente, nazionale e locale. «Ci sono due convitati di pietra che non vengono mai nominati – dichiara -: l’economia reale ed il lavoro. Di economia reale se ne è parlato quando è circolata la voce che la ripresa era in vista. Poi, è sceso il silenzio: è bene riparlarne invece perché nel frattempo tra gli economisti di opposte tendenze (faccio un esempio: Paul Krugmann e Lawrence Summers) si è fatta luce la convinzione che la ripresa non ci sarà e che avremo davanti a noi un decennio di stagnazione e di deflazione. Detto per inciso, nel corso di una breve visita al porto di Anversa e di successivi incontri avuti a Bruxelles, ho potuto constatare che parecchie persone collocate in posizione tale da poter avere una visione diretta del mercato portuale e dello shipping, cominciano a pensarla allo stesso modo.
Che vuol dire questo?
Prendiamo i cinque porti del Nordadriatico: Ravenna, Venezia, Trieste, Koper e Rijeka. Quattro di questi porti si trovano in paesi – l’Italia e la Slovenia – con grandi difficoltà economiche e cronica crisi istituzionale. La Croazia non brilla certo per le sue performances economiche. Parlare di sviluppo dei porti quando l’economia sta ferma significa essere in  mala fede.
In queste circostanze possono avere una crescita sganciata dalla crescita del paese di residenza solo i porti che servono
più economie, più paesi, più mercati. In tal caso i traffici di più Paesi si sommano nell’unico porto di transito. In questa situazione si trovano oggi solo Trieste e Koper. Quindi oggi, insisto oggi (domani forse sarà diverso, dipende da tanti fattori) sulla base di queste previsioni economiche posso ragionare in termini di sviluppo solo per due di questi cinque porti.
Ma qui entra in gioco la crisi istituzionale. I governi italiano e sloveno sapranno adottare le politiche giuste per  accompagnare lo sviluppo di questi porti?
Per quanto riguarda l’Italia, osservo solo che questo governo ha mantenuto fede ai suoi vincoli internazionali ma sul
piano di una politica che consenta almeno a quelle imprese che vanno bene di resistere, che consenta di ridurre la disoccupazione giovanile, d’incoraggiare la formazione d’impresa, non ha fatto ancora nulla di adeguato alla gravità della
situazione.
Possono allora avere un ruolo decisivo nei destini di Koper e di Trieste le decisioni di alcune grandi imprese? E queste imprese sarebbero compagnie marittime o operatori multimodali? E ancora: dobbiamo tornare a discettare di gigantismo navale e fondali o dobbiamo guardare al retroterra dei porti?
É da tempo che ripeto la mia convinzione: l’elemento decisivo sono i tentacoli che un porto riesce ad allungare nella sua catchment area, non sono le dimensioni delle navi. E quando dico tentacoli intendo una rete di servizi logistici, con determinata efficienza e determinati costi, non intendo il collegamento Trieste-Divaca (questa maledetta mania di banalizzare i problemi del trasporto merci e di ridurli ad una questione di infrastrutture!). E quando si parla di servizi logistici entra in gioco il tema del lavoro. Troppi pensano ancora che il lavoro portuale dovrebbe essere ridotto alla condizione in cui oggi viene esercitato nei magazzini della logistica. Lo pensano anche a Trieste, che è un porto dove le cosiddette relazioni industriali si pongono su un livello ben inferiore a quelle di Venezia o di Ravenna. Allora è bene parlar chiaro: l’Italia è un paese con il 41% di disoccupazione giovanile, in gran parte intellettuale, è il Paese con i più assi salari d’ingresso in Europa, è il Paese dove l’80% dei nuovi occupati costano al datore di lavoro, in virtù dei loro contratti flessibili, la metà di quanto costa un lavoratore a tempo indeterminato. Pensare che la competitività
di un’impresa italiana, di qualunque settore, stia nella compressione del costo del lavoro, significa non aver capito
nulla di quanto sta succedendo.
Quindi, qual è la dimensione giusta in cui collocare la problematica portuale?
Una volta tanto possiamo tirare in ballo Rotterdam a proposito: investimenti enormi in nuovi terminal, automazione
spinta, tutto pronto per accogliere le navi più grandi. Arriva qualche giorno fa la “Maersk Mc-Kinney Moller” da 18.000
Teu, non può attraccare, da 17 giorni il terminal è paralizzato da uno sciopero selvaggio.Dovranno scaricarla i portuali
Psa di Anversa e grazie al cielo che ci sono loro. Questa è la dimensione giusta in cui collocare la problematica portuale,
continuare a parlare di navi giganti, terminal da 2 milioni di Teu, tunnel ferroviari sul Carso, distretti logistici costruiti a
tavolino su mappe inventate al momento, evitando sempre di parlare di economia e lavoro, non ci porta da nessuna
parte.
Rtc (Rail Traction Company) non viene a Trieste perché la manovra ferroviaria costa troppo?
Il suo grandioso progetto di portare Bmw in Cina non era realizzabile. Ho detto la stessa cosa quando è comparso all’orizzonte il progetto del megaterminal di Monfalcone: costruire un porto nuovo davanti a Trieste non ha senso, così come costruirne uno a 50 km da Genova.