Oggi le navi suonano le sirene per portare il problema del cambio degli equipaggi all’attenzione delle istituzioni, che avrebbero bisogno di ben altre scosse
             Se siete dipendenti di un’azienda non dovreste avere difficoltà ad immedesimarvi. Immaginate che le misure di lockdown per contenere la pandemia di coronavirus vi abbiano costretto a rimanere in ufficio anziché a casa e a restarvi giorno e notte.
A parte i pochi che, per contingenze particolari come una difficile situazione familiare, preferiscono le ore d’ufficio a quelle domestiche, gli altri non vedrebbero l’ora di potersi alzare dalla sedia e lasciare il lavoro.
Immaginate che, quando ormai l’allentamento delle restrizioni consente a tutti il ritorno ad una vita normale, voi siate gli unici obbligati al confino in ufficio. Notte e giorno. Per giorni, che diventano settimane.
Quanto resistereste? Non durereste un giorno, forse due. Poi la protesta, la ribellione. Telefonereste ai sindacati e ai giornali. Poi lo sciopero. Appena prima che usciate di senno. Fortunatamente le democrazie liberali dell’occidente non hanno più bisogno di martiri. Oppure sì?
Perché in realtà voi non siete stati segregati in ufficio, ma a casa, e siete potuti tornare alla normalità non appena le autorità hanno segnalato il cessato allarme. Altri invece non lo hanno potuto fare.
Altri che, a differenza vostra (e nostra), quella sensazione di isolamento ed emarginazione non l’hanno vissuta solo nel limitato periodo del blocco emergenziale, ma l’hanno sperimentata ben da prima e continuano a sopportarla, magari da quando hanno iniziato a lavorare. Quegli sventurati sono i marittimi.
Erano sulle navi prima che iniziasse il lockdown, che partito a macchia di leopardo si è poi esteso alla gran parte delle nazioni. Erano sulle navi, continuando a lavorare, quando voi eravate a casa senza poter lavorare o facendolo da remoto. Sono ancora sulle navi quando noi e voi, ormai da tempo, siamo tornati alla vita normale. Sono a bordo e magari non possono sbarcare neppure per fare una passeggiata. Di tornare a casa non se ne parla neanche. Sono a bordo in pratica illegalmente, dato che il contratto di lavoro, che per loro si chiama contratto di arruolamento (e già questo dovrebbe dire molto), non è rispettato essendone stata artatamente prolungata la durata.
Non a caso il sindacato International Transport Workers’ Federation (ITF), rifacendosi a rilievi dell’International Labour Organization (ILO), nei giorni scorsi, riferendosi ai marittimi, ha osservato che costringere lavoratori vulnerabili con poche possibilità di alternative a sopportare condizioni di lavoro che li mettono a rischio e non rispettare i loro diritti può costituire una forma di lavoro forzato e che l’abuso di questa vulnerabilità per estendere i loro contratti costringendoli a restare sino a 17 mesi in mare, assieme alla loro precaria situazione giuridica e all’inevitabile dipendenza dai loro datori di lavoro, potrebbero dare origine ad una situazione analoga alla tratta di esseri umani al fine dello sfruttamento della manodopera.
Questi lavoratori del mare raramente protestano. Quasi mai si ribellano. Se telefonano ai sindacati o a giornali come il nostro è perché non hanno lavoro e chiedono aiuto. Scioperano assai poco. E lo fanno quelli che possono farlo, cioè coloro che sono imbarcati su navi impegnate su rotte cabotiere o a corto raggio.
Quelli a bordo delle navi oceaniche che attraversano il mondo semplicemente non possono farlo. Non possono perché quello dei marittimi che attraversano il globo è un mondo assai frammentato, costituito da lavoratori che per lo più provengono da nazioni in cui le tutele sindacali sono minime e che hanno pochissime opportunità di unirsi per raggiungere la massa critica necessaria per avviare azioni di protesta.
A queste manifestazioni ci pensano i sindacati. Ma se i rappresentanti dei lavoratori del mare hanno successo nel proclamare scioperi che coinvolgono marittimi che navigano poco lontano da casa, quasi nessuna possibilità di riuscita avrebbero scioperi pur indetti da organizzazioni sindacali internazionali con l’intento di salvaguardare i diritti dei globetrotter dei mari. Infatti, queste ultime manco ci pensano a proclamarli.
In queste settimane, in cui il marittimo suo malgrado è reso schiavo e celebrato come eroe, né l’ITF né il sindacato europeo omologo ETF hanno annunciato il ricorso ad uno sciopero che, nonostante la drammatica situazione, si risolverebbe in un fiasco.
Oggi alle ore 12.00 nei porti del mondo le navi suoneranno le loro sirene per sollecitare i governi a consentire il cambio degli equipaggi delle navi, per permettere a quelli a bordo di tornare a casa e a quelli da tempo in attesa dell’imbarco di poter salire a bordo. L’iniziativa è dell’associazione armatoriale International Chamber of Shipping (ICS).
Lodevole l’intento, ma un po’ poco per sollecitare il rispetto dei diritti di persone che non sono state trattenute un giorno in più del dovuto alla loro scrivania, ma che da settimane sono ostaggio delle loro navi. Un po’ poco da parte di datori di lavoro che, fortunatamente unici nelle nazioni delle democrazie liberali, possono confrontarsi con lavoratori (arruolati) che in pratica non possono avvalersi del diritto di sciopero.
Certo l’ICS e le altre organizzazioni armatoriali internazionali e nazionali hanno fatto notevoli pressioni sulle autorità per sollecitare risposte al problema. Anzi, le risposte le ha già fornite la stessa industria dello shipping che ha offerto alle istituzioni una procedura bell’e pronta per i cambi degli equipaggi che è stata approvata dall’International Maritime Organization (IMO), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del settore marittimo.
In Italia, nazione che tradizionalmente è ripiegata su se stessa e non guarda oltre i confini nazionali a meno che qualcuno oltre confine non si impicci dei fatti nostri, il problema non sembra sfiorarci, nonostante le sollecitazioni ad affrontarlo provenienti dalle associazioni armatoriali Confitarma e Assarmatori e dai sindacati.
A livello governativo, ministeriale, regionale e locale ci si è limitati sinora a prendere qualche provvedimento perché i servizi marittimi continuassero a servire le esigenze del paese. Qualche sforzo per consentire ai traghetti e alle navi impegnate nei collegamenti con le isole di funzionare. Nessun impegno affinché siano rispettati i diritti di lavoratori impiegati sulle navi oceaniche che movimentano il commercio italiano con l’estero.
Alla luce di ciò, i fortunati che lavorano a bordo di navi che navigano fra porti italiani o poco più in là possono, sia pure con difficoltà, vedere rispettati i loro diritti, mentre gli sventurati che è già tanto se sanno in quale parte del mondo si trovano a navigare non hanno la minima idea di quando finirà la loro detenzione. Se ciò è inaccettabile per impiegati tutelati che siedono ad una scrivania, è ancor più inammissibile per lavoratori vulnerabili oggi più che mai sperduti in mare aperto.
È per questo che le maggiori compagnie di navigazione mondiali, le cui navi battono bandiere di tutti i tipi tra cui quelle di marine mercantili nate solo con lo scopo di permettere di eludere oneri fiscali e sindacali, dovrebbero forse fare di più per difendere i loro lavoratori senza tutele. Suonare le sirene? Non basta.
Perché, allora, non fermare le navi? Raramente, anzi quasi mai gli armatori sono ricorsi a questa forma di astensione dal lavoro. “Blocchi navali” sono stati attuati sono in casi eccezionali per difendere i diretti interessi del loro settore. Per i grandi gruppi armatoriali di oggi fermare anche per un solo giorno le navi vuol dire doversi confrontare con notevoli oneri straordinari e il farlo in un momento come quello attuale, in cui il mondo sta entrando in una fase di grave crisi economica, appare come una mossa suicida.
Tuttavia suonare le sirene per qualche decina di secondi non dà fastidio a nessuno. Detto senza ipocrisie: uno sciopero ha successo quando le istituzioni si decidono ad accogliere le istanze dei promotori dell’astensione dal lavoro sull’onda delle proteste di coloro a cui lo sciopero causa disagi.
Interesse degli armatori – dall’internazionale ICS all’europea ECSA in giù – dovrebbe essere anche quello di salvaguardare e promuovere l’attrattiva della professione marittima. Interesse che certamente c’è, dato che, rimanendo in ambito europeo, le organizzazioni armatoriali periodicamente sollecitano l’UE ad incentivare e stimolare l’accesso alle professioni marittime e regolarmente l’Unione Europea e le organizzazioni armatoriali si vantano di offrire ai cittadini europei posti di lavoro altamente qualificati nel settore marittimo.
Quale può essere la percezione di un giovane rispetto alle prospettive offerte da questo settore quando quelli del mare sono trattati come gli ultimi tra i lavoratori? Quale può essere l’interesse ad entrare in un Istituto Nautico quando poi la tua professione “altamente qualificata” ti costringe ad una prigionia su una nave abitata da pochi altri disgraziati? Come se apprezzare Dante fosse reputato un privilegio per coloro che sono costretti a scontare una pena detentiva.
Bruno Bellio

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