Port&ShippingTech

V edizione

Genova, 20 settembre 2013

 

Sergio Bologna

Fortune e rischi delle nazioni export oriented

keynote

 
Secondo gli ultimi dati, riportati nel numero di luglio del “Bollettino Economico” della Banca d’Italia, le esportazioni italiane verso i paesi dell’UE sono ancora diminuite ma in compenso hanno continuato a crescere quelle verso i paesi emergenti.[1] E’ una buona notizia per i porti, perché i mercati dei paesi emergenti si raggiungono per nave o in aereo, mentre quelli della UE sono serviti essenzialmente dalle modalità terrestri. La crisi che continua ad affliggere l’eurozona ed in particolare i paesi della olive belt colpisce in particolare i consumi, con conseguenze pesanti per i flussi d’importazione. Lo squilibrio tra import ed export cresce e l’Italia diventa sempre più un paese export oriented. Questo comporta dei vantaggi ma anche degli svantaggi.
 
1. Vediamo alcuni vantaggi. Sempre secondo i dati riportati dalla pubblicazione citata di Banca d’Italia, la bilancia commerciale italiana è passata in un anno da un passivo di 1,7 mld ad un attivo di 6,9 mld. E’ migliorato moltissimo anche il saldo delle partite correnti, con una riduzione del disavanzo di ben 9,7 mld di euro.[2] Le esportazioni svolgono un ruolo sempre più importante nell’economia italiana e l’Italia – secondo un’analisi UNCTAD/WTO del 2011 – è seconda solo alla Germania nelle performance del suo export. La Fondazione Edison ha analizzato un campione assai significativo di prodotti che sono accolti molto favorevolmente nei mercati emergenti.[3] I Paesi dove l’export italiano raccoglie i maggiori successi sono la Turchia, la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e la Cina. I mercati che in prospettiva a breve si presentano più promettenti sono Brasile, Hong Kong, Arabia Saudita, Messico, Algeria, Corea del Sud, India, Tunisia, Egitto, Libia, Israele. Nel 2012 il valore delle esportazioni italiane verso questi paesi ha raggiunto i 73,4 mld di euro.
 
2. Ma non si vive di solo export. Per un grande paese avanzato come l’Italia a lungo andare un modello di sviluppo trainato solo dalle esportazioni diventa insostenibile, come sostiene anche Sergio de Nardis, chief economist di Nomisma in un intervento recente su la voce.info.[4] Perciò è tanto più importante capire quali sono i fattori di successo delle imprese esportatrici che presentano incrementi del fatturato e della redditività superiori alla media e sono in grado di creare ricchezza non solo per sé ma per la nazione intera. Una ricerca dell’Ufficio Studi di Confindustria, che uscirà tra breve per i tipi di Donzelli editore e che è stata anticipata da un lungo saggio su “L’industria”, ha censito diverse centinaia di imprese con queste caratteristiche, cercando di capire quali sono stati i fattori di successo che hanno loro permesso una crescita così consistente ed un forte vantaggio competitivo sui concorrenti. Sono imprese che hanno puntato sulla “valorizzazione del sapere interno come strumento di differenziazione” e che “tendono a fare del capitale umano un punto di forza interno con una importanza almeno quattro volte superiore ai concorrenti”.[5] Sono imprese che puntano sulle competenze e che cercano di procurarsi nel nostro Paese ed altrove le risorse di capitale umano migliori. Il loro modello è l’opposto di quello che punta sull’esternalizzazione delle funzioni, sulla compressione dei costi e sulle delocalizzazioni, alla ricerca della mano d’opera a più basso costo. Sono imprese con una visione di lungo periodo e non con l’atteggiamento “mordi e fuggi” di tanto venture capital. Non basta essere bravi ad esportare, occorre esser bravi in tutto. Se guardiamo alle nostre imprese esportatrici notiamo che sono presenti imprese con modelli di gestione opposti: quelle che esportano perché sono competitive avendo investito in innovazione e risorse umane, quindi competono sul piano della qualità, e quelle che esportano perché la loro competitività è ottenuta trasferendo la produzione a fornitori a basso costo in paesi lontani dove le condizioni di lavoro spesso sono inumane, produzione che poi viene reimportata, marchiata “made in Italy” e venduta sui mercati internazionali a basso prezzo.
 
3. Una nazione esportatrice ha bisogno di un sistema logistico efficiente, in particolare nel segmento marittimo-portuale. Una delle criticità che il settore deve affrontare in una situazione di bilancia commerciale, com’è quella che vive l’Italia oggi, è data proprio dallo sbilanciamento tra import ed export che crea nella navigazione deep sea un problema complesso di riposizionamento dei vuoti. Per altro verso la stagnazione delle importazioni, mantenendo pressoché costante il flusso di unità di carico sbarcate e inoltrate, non aggrava ulteriormente i problemi – particolarmente acuti all’importazione – connessi al peso dei vincoli burocratici nei porti italiani, ancora lontani, tranne alcune eccezioni, dall’efficienza richiesta nei progetti di “sportello unico portuale”.
Negli ultimi due decenni si è assistito ad un incremento molto importante di servizi nell’area mediterranea, che oggi è coperta da una rete fittissima di linee marittime regolari che provvedono al trasporto della merce e delle persone. In Europa solo l’area baltica può offrire qualcosa di simile. Se negli ultimi quattro-cinque anni i servizi come numero non sono aumentati ma in taluni casi diminuiti, ciò è dovuto all’introduzione di navi di sempre maggiore capacità di carico, soprattutto nel settore del container. Il Mediterraneo ha pochi rivali nel mondo in alcune tipologie di traffico, la crocieristica innanzitutto e le Autostrade del Mare. La bellezza naturale delle coste e delle isole mediterranee, unita alle caratteristiche del clima ma soprattutto allo straordinario patrimonio storico ed architettonico delle città che si affacciano su questo mare, ne fanno un’area del mondo di attrazione turistica permanente. I servizi Ro Ro e di navi miste, che forniscono un supporto fondamentale al traffico stradale pesante, hanno punte di eccellenza nell’area mediterranea. Si pensi, a proposito dei maggiori paesi partner delle nostre esportazioni, ai traffici di semirimorchi tra il porto di Trieste e la Turchia che hanno raggiunto ormai le 19 partenze settimanali e, dato ancora più interessante, con una quota del 34% che prosegue via treno per destinazioni dell’Europa centrale. Il settore del container, che ha avuto uno sviluppo spettacolare alla metà degli Anni 90 grazie all’esplosione degli scambi europei con la Cina, con il Sud Est asiatico e con i Paesi del Golfo, è quello che oggi presenta i maggiori rischi e le maggiori incertezze, dovute principalmente alla stagnazione economica nell’eurozona ed alle difficoltà di bilancio di tutti i grandi Paesi affacciati sulla sponda nord del Mediterraneo (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e, ultimamente, Francia). Inoltre, incombe sull’area mediterranea il rischio di ripercussioni della crisi egiziana sull’agibilità del Canale di Suez.
 
4. Nel suo Interim Report di luglio, relativo al secondo trimestre 2013, Maersk prevede per la fine del 2013 un incremento della domanda globale di servizi containerizzati di appena 2-3%, e questo soltanto in virtù degli incrementi previsti in certe aree del globo emergenti. La direttrice Asia-Europa continua ad essere quella in maggior sofferenza.[6] Dopo un periodo, peraltro assai breve, in cui le compagnie avevano ridotto la capacità offerta ed arrestato il flusso di ordini di nuove navi ai cantieri, la corsa all’aumento della flotta sembra essere ripresa negli ultimi mesi, in particolare nel segmento delle “ultralarge”. Nel 2014 dovrebbero essere consegnate 36 nuove navi di capacità media 14.000 Teu e altre 33 consegnate nel 2015 di capacità media 15.000 Teu. Falliti anche gli ultimi tentativi di aumentare i noli spot a settembre sulla rotta Asia-Europa, le compagnie puntano sulla riduzione dei costi operativi impiegando le navi dell’ultima generazione che hanno un consumo di carburante limitato. Il risparmio sui costi del bunker sembra essere oggi l’arma privilegiata delle compagnie per rientrare dai costi operativi in un periodo di noli depressi. Ma un recente studio di Drewry Shipping Consultants ha dimostrato che i risparmi vantati dalle compagnie sono per metà dovuti ai minori consumi delle navi ultima generazione e per metà alle riduzioni di prezzo del carburante medesimo.[7] Se si dovesse arrestare la discesa del prezzo del bunker, anche in seguito alle turbolenze nel Medio Oriente, le compagnie dovrebbero ulteriormente ridurre la velocità delle navi vedendosi costrette ad aggiungerne alcune per mantenere la frequenza del servizio – il saldo potrebbe essere negativo – oppure avrebbero dei risparmi talmente modesti da dover ricorrere ad altri sistemi per far quadrare i bilanci. Pertanto, conclude lo studio, le compagnie debbono capire che l’unica via di uscita è una riduzione seria della capacità in modo da poter aumentare i noli. A noi pare invece che la corsa al gigantismo navale e la ripresa degli ordini ai cantieri sembrerebbero spiegarsi da un lato con il forte calo dei prezzi praticati dai cantieri del Far East ma dall’altro con la convinzione, da parte delle compagnie, che per un certo periodo, anche in presenza di una lieve ripresa, sarà impossibile ottenere dai caricatori dei noli più elevati, a causa del perdurare della crisi nell’eurozona.
 
5. Alla spinta verso il gigantismo si affianca ora una spinta verso la concentrazione, il cui segnale più forte è la proposta dell’alleanza P3 tra Maersk, MSC e CMA CGM, in attesa del benestare da parte delle autorità europee. Come se si fosse fatta strada la convinzione, nelle maggiori compagnie, che il mercato rimane quello che è, non si espande a causa del rallentamento della crescita sulle rotte est-ovest, non compensato dalla forte crescita sulle rotte nord-sud o sud-sud. L’unico modo quindi di conquistare nuove quote di mercato è quello di costringere il concorrente più debole ad uscirne, per poi spartirsene le spoglie. E’ stato calcolato che, se dovesse entrare in funzione nella seconda metà del 2014, P3 potrebbe disporre di 266 navi con una capacità media di 12.700 Teu. Anche mettendosi insieme, secondo uno studio di Sea Intel, gli altri due raggruppamenti, CKYH e G6, non riuscirebbero ad avere la stessa potenza di fuoco.[8] Le prime a dover uscire dal mercato Asia-Europa rischiano, secondo lo stesso studio, di essere le tre compagnie giapponesi NYK, MOL e K Line, se non si affrettano ad acquisire naviglio di portata superiore ai 10 mila Teu. Per altri analisti del mercato invece, l’anticipo con cui la Maersk ha preceduto tutti i concorrenti nel procurarsi le navi attualmente più grandi, da 18.000 Teu di portata, non porterà dei vantaggi alla compagnia danese, anzi, potrebbe metterla in difficoltà in quanto i suoi competitor, che stanno ordinando ora queste “ultralarge”, potranno pagarle oltre il 20% di meno, dato il continuo calo dei prezzi del nuovo che esce dai cantieri coreani e cinesi, fortemente sovvenzionati dai rispettivi stati. [9]
 
6. Il dibattito dunque è molto aperto e le opinioni sulla nuova fase del ciclo dello shipping sono contrastanti. Sarebbe invece opportuno prendere le distanze da questo dibattito, il cui terreno di scontro è sempre il mercato del trasporto, perché il trasporto è un sistema economico derivato, la parola decisiva spetta ancora all’economia reale. I noli sulla rotta Asia-Europa e sulla rotta Asia-Nordamerica saliranno solo se le economie dei paesi avanzati riprenderanno a crescere, i profitti delle compagnie derivanti dagli utili operativi potranno crescere solo quando l’eurozona e il Nordamerica usciranno dalla crisi, anzi dalla depressione di questi ultimi quattro anni. Sembra che gli Stati Uniti ci stiano riuscendo, ma con alcuni interrogativi sui dati che vengono forniti: è bensì vero che la disoccupazione è calata al 4% ma quanto guadagna la gente che lavora? La ripresa USA produce occupati con un reddito in grado di rilanciare i consumi interni o produce working poors? [10] Gli interrogativi sono ancora più angosciosi quando si tratta dell’eurozona. La Germania segna quest’anno un modesto + 0,9% del PIL, secondo le valutazioni del FMI, la Francia sta arrivando pian piano al livello dove si trovano i paesi della olive belt e la sbandierata ripresa dell’Italia sembra piuttosto una trovata per ridare ossigeno ad un governo traballante che una tendenza reale in atto. Come si può parlare di ripresa quando in Italia le sofferenze bancarie sono aumentate del 22% in un anno? E poi non si parla mai di quello che abbiamo lasciato sul terreno in questi quattro anni di crisi: il 20% dell’apparato produttivo italiano. Per non parlare dei miliardi di ore di Cassa Integrazione che tengono sotto una tenda ad ossigeno un’altra quota importante del nostro apparato produttivo. Venissero a mancare, la perdita totale in termini di apparato produttivo sarebbe pari a un terzo, non a un quinto, del totale. Solo nel 2012 sono usciti dal mercato circa 100 mila tra imprenditori e manager. E in questa situazione si ha la faccia tosta di parlare di ripresa solo perché gli ordinativi di quel che resta dell’apparato produttivo sono in leggero aumento?
 
7. Più si riflette su quanto è successo nell’economia e nella finanza mondiale in questi quattro anni e più si fa strada in noi la convinzione che dalla ripresa nei paesi avanzati la grande finanza internazionale non ha nulla da guadagnare, anzi, essa prospera con la condizione di deficit strutturale d’intere nazioni, prospera con la debt economy, si avvantaggia dalla progressiva riduzione della sovranità di certi paesi e può meglio controllare i rapporti di forza tra valute, può tenere sotto pressione l’euro ed il dollaro, orientando gli spostamenti di capitale dei fondi sovrani. A pensarci bene, la politica controcorrente di quantitative easing della Federal Riserve americana, l’immissione massiccia di liquidità nel sistema, contraria a qualunque teoria monetaria degli ultimi 40 anni, ha ridato autonomia all’istituto di emissione americano, lo ha riportato sulla scena come protagonista, perché era diventato anch’esso un’istituzione a rimorchio delle turbolenze della finanza internazionale. Stampare moneta è l’unico monopolio che la Fed conserva, è l’unico suo privilegio. Semplicemente ne ha fatto uso, ha deciso una volta tanto quel che vuol fare, invece di decidere quel che altri la costringono a fare. Se l’economia dell’eurozona riprendesse a crescere in termini reali, non in termini fittizi, cioè restituisse ai residenti, ai cittadini tutti dei vari paesi, potere d’acquisto (e non soltanto ad alcuni gruppi di upper class), l’euro sarebbe meno esposto alla speculazione internazionale, l’unione bancaria che muove i primi passi avrebbe un ruolo sostanziale di autoregolazione, gli stati europei riguadagnerebbero sovranità e la BCE potrebbe forse aspirare ad avere un ruolo simile a quello della Fed.
 
8. Ma probabilmente questa è un’utopia, i paesi avanzati sono destinati ad un inarrestabile declino, la storia va in questa direzione? Il grande risultato che aveva ottenuto il capitalismo mitigato dalla socialdemocrazia, il pensiero liberale corretto da quello socialista e dal pensiero sociale cristiano, cioè quello di assicurare a tutti i cittadini europei un tenore di vita soddisfacente – grazie ad uno sviluppo economico al quale si accompagnava un welfare inclusivo ed una ripartizione tra salari e profitti più equa dell’attuale – è destinato a non riprodursi mai più e l’Europa è destinata ad avviarsi su una strada dove un gruppo ristretto di cittadini godrà di una ricchezza sempre più opulenta ed un gruppo sempre maggiore di altri cittadini sarà ridotto in condizioni di povertà o semipovertà?
Il comportamento delle grandi compagnie marittime sembra quasi aver già interiorizzato questa prospettiva. I margini di profitto che ci si aspetta possano derivare da una ripresa economica che fa salire i volumi (e di conseguenza i noli) sono considerati secondari rispetto ai margini che possono essere ricavati da una gestione puramente finanziaria della nave o da un risparmio di costi sulla gestione operativa. I grandi sforzi impiegati nell’innovazione di tecnologie che consentono risparmi di carburante anche del 30% possono essere vanificati in una notte da un improvviso rialzo dei prezzi del greggio dovuto alle turbolenze politiche nell’area del Medio Oriente. Tutto il vantaggio del gigantismo navale può dissolversi come neve al vento. Il paragone con la vicenda delle superpetroliere degli anni 70 regge fino a un certo punto perché il ciclo di sbarco/imbarco e dunque i costi della portualità e la scelta degli itinerari, i network costs di una flotta di portacontainer, non sono paragonabili con quelli di una flotta di bulk carrier, la complessità del ciclo del container non ha paragone con quella del ciclo del greggio.[11] Molto probabilmente l’avvento delle navi sopra i 15.000 Teu di portata non segnerà affatto una nuova èra del traffico container, come ormai dicono e scrivono molti analisti. La nuova èra semmai ha altre origini, non dipende dal gigantismo ma dalla finanziarizzazione dello shipping. E’ quello che accade del resto nel regno delle commodities. [12]
 
9. In un brillante contributo su www.lavoce.info, Diego Valiante ci spiega come “l’interazione tra il mercato delle commodities (merci) e il sistema finanziario internazionale” abbia ”cambiato la struttura di entrambi per sempre”.[13] E’ questo quello che chiamiamo finanziarizzazione, è il fenomeno per il quale, data la “(in)sostenibilità dei fondamentali di offerta e domanda…i prezzi (ritorni) di investimenti su merci sono in media maggiormente correlati ai ritorni di indicatori finanziari quali gli indici azionari”. Lo sviluppo delle nuove tecnologie d’informazione ha fatto sì che “la facile trasmissione delle informazioni nei prezzi crea pressioni che spingono in molti casi i principali attori a dover affrontare i problemi strutturali nel mercato sottostante, mentre programmi di sussidi da parte di governi nazionali sono diventati molto costosi poiché il prezzo da manipolare è un prezzo globale e non regionale. Questa è una delle ragioni principali della maggiore volatilità dei prezzi negli ultimi anni, che riflette l’incertezza sulla sostenibilità della domanda e dell’offerta in molti mercati delle merci in un mercato di fatto globale”.
Grazie all’interazione tra mercato delle merci e sistema finanziario è stato possibile un “maggiore accesso alla leva finanziaria /futures/ da parte di imprese che commerciano fisico e in particolare trading houses internazionali (…) ma internazionalizzazione e interconnessione significano anche concentrazione del commercio in poche società internazionali e infrastrutture del mercato (…) trading houses internazionali con accesso a una poco costosa leva finanziaria, se non correttamente supervisionate, potrebbero creare problemi per la sicurezza dell’approvvigionamento di merci importanti per il funzionamento di molti sistemi industriali (come agricoltura, energia, metalli industriali)”.
Tradotte queste considerazioni in termini di shipping, ci dovremmo chiedere quale know how deve possedere oggi un armatore del tramp che trasporta commodities. Una volta le sue conoscenze necessarie a fare business erano comunque inserite nel grande frame della domanda e dell’offerta ed i prezzi, per quanto variabili, non avevano la volatilità di cui parla Valiante per il giorno d’oggi. Come piazzare un’offerta di stiva al momento giusto quando la volatilità dei prezzi ha raggiunto il ritmo ossessivo e disordinato dei nuovi prodotti finanziari? Come prevedere quale direzione assumeranno i flussi?
 
10. Una cosa possiamo dire con certezza: le navi portacontainer “ultralarge” non si fermeranno nel Mediterraneo o al massimo faranno una toccata in un porto mediterraneo di transhipment. Questa cartina, tratta dal sito della CMA CGM, che raffigura l’itinerario seguito dalle navi della compagnia francese di oltre 16.000 TEU di portata – attualmente le più grandi in servizio, in attesa che Maersk decida dove mettere la sua prima Triple-E da 18.000 TEU – è abbastanza eloquente: il Mediterraneo è praticamente bypassato.
 
“Lloyd’s List” del 2 settembre dava un possibile itinerario per la prima nave da 18.000 Teu della Maersk sulla rotta Asia-Europa:
westbound
Kwangyang
Shanghai
Ningbo
Yantian
Tanjung Pelepas
Rotterdam
Bremerhaven
Gdansk
Åarhus
Gotheborg
 
eastbound
vengono aggiunti Tangeri (o Porto Said), Singapore e Hong Kong.
Nel round trip della più grande nave portacontainer del mondo è prevista una sola toccata mediterranea in direzione eastbound.
A cascata però queste grandi navi dovrebbero impiegare per le operazioni di feederaggio unità di portata proporzionale alle “ultralarge”, unità da 7.000, 8.000, 9.000 Teu. Se è difficile pensare che una nave così grande possa fare “il giro del latte” e se le piccole navi impiegate nel feederaggio (navi da 800-1.200 Teu) ormai hanno dei costi operativi considerati proibitivi a paragone di quelli delle “ultralarge” a basso consumo, resta il fatto che un upgrading delle infrastrutture portuali esistenti è inevitabile. Ma andrebbe fatto con buon senso e non con preoccupazioni d’immagine, andrebbe fatto con un’oculata attenzione al rapporto costi/benefici finale, andrebbe fatto con un project financing “vero” non con dei mutui mascherati, andrebbe fatto in modo da alleggerire, non da appesantire, il costo per la collettività, andrebbe fatto senza pensare solo ed esclusivamente ai container ma con una visione multisettoriale, andrebbe fatto con l’occhio rivolto all’intera catena logistica, non solo al segmento portuale.
 
11. Se fossero rispettati tutti questi vincoli, tuttavia, non basterebbe. Al punto in cui siamo, solo un forte, deciso e radicale cambiamento di paradigma può evitare al nostro paese ed ai suoi abitanti di fare una brutta fine. Non c’è nulla di nuovo da inventare. Sul piano delle politiche per l’occupazione, sarebbe ora di smetterla con l’insistere ancora sui provvedimenti che accrescono la flessibilità all’entrata. E’ dal “pacchetto Treu” del ’96 che si continua su questa strada ed il risultato è una disoccupazione giovanile al 40%. Decine di economisti del lavoro da anni ammoniscono, cifre alla mano, che questa è una politica dell’occupazione sbagliata. Perché insistere? Sul piano generale dell’impresa si tratta di scegliere la strada dei migliori, di quelli che investono in competenze e innovazione, in know how e in tecnologia, in responsabilità sociale e rispetto per l’ambiente. E sono quelle con i maggiori utili e gli incrementi di fatturato più significativi. Occorre smetterla di considerare l’unica risorsa il territorio, occorre arrestare la corsa insensata alla cementificazione. Viviamo nell’èra dell’economia della conoscenza, il bene più prezioso è la materia grigia, non il cemento. Nella portualità e nello shipping è la stessa cosa. I porti hanno concentrato tutti i loro sforzi nell’aumento delle capacità fisiche, sembra quasi diventata la loro ragion d’essere. Invece nei porti occorre imprimere una forte torsione verso le risorse immateriali e verso le nuove tecnologie. Non si tratta di rifondare il mondo o di sposare le utopie della “decrescita felice” (che comunque, come tutte le utopie, vanno trattate con rispetto). Si tratta di privilegiare certi valori e certi comportamenti piuttosto che altri. Anche nel gigantismo navale bisogna apprezzare non tanto l’aumento di capacità quanto l’adozione di nuove tecnologie, per la riduzione del consumo di carburante, per il trattamento e il recupero dei rifiuti, per un più estensivo uso di strumentazione sofisticata di bordo, tutte innovazioni che a cascata nei prossimi anni entreranno a far parte del naviglio di tutte le dimensioni. Questo convegno, mettendo l’enfasi sull’high tech, va nella direzione giusta. L’importante è che questa direzione non sia considerata un fatto episodico ma il segno di un vero e proprio cambiamento di paradigma.
 



[1] n. 73, luglio 2012, p. 22.
[2] Va forse ricordato a questo punto che il saldo attivo delle partite correnti dell’eurozona è addirittura superiore a quello della Cina, conseguenza, secondo alcuni osservatori, delle politiche di austerità, le quali avrebbero compresso la domanda interna e creato le difficoltà che stanno attraversando le finanze e le valute dei paesi emergenti, colpiti dalla stagnazione delle importazioni dell’eurozona, aumentate nel quinquennio 2008-2013 ad un media di 0,25% all’anno soltanto (v. Daniel Gros, Emerging Markets’ Euro Nemesis, pubblicato su www.socialeurope, 09.09.2013).
[3] Marco Fortis, Osservatorio GEA-Fondazione Edison, I più importanti mercati emergenti per l’Italia, giugno 2013.
[4] Se l’export cresce a spese del mercato del lavoro, su www.lavoce.info del 17.09.2013: “le dinamiche delle esportazioni e del mercato del lavoro nel periodo 2007-2013 in sette economie euro” dimostrano che “l’export è andato tanto meglio lì dove la disoccupazione è aumentata di più”. La Spagna, che rispetto alla Germania ha un export più forte di quello italiano, aveva nel 2007 un tasso di disoccupazione dell’8,5%, oggi ne ha uno del 26%”.
[5] A. Arrighetti, F. Traù, Far from the Madding Crowd. Sviluppo delle competenze e nuovi percorsi evolutivi delle imprese italiane, in “L’industria”, a. XXXIII, n. 1, gennaio-marzo 2012.
[6] “Global demand for seaborne containers is expected to increase 2-3% in 2013, lower on the Asia-Europe trades, but supported by higher growth for imports to high growth markets.”, AP Moller-Maersk AS, Interim Report, 2nd Quarter 2013.
[7] Fuel savings not enough, “Lloyd’s List”, 11 settembre 2013.
[8] A united CKYH and G6 would be no match for P3 in Asia-Europe trade, “Lloyd’s List”, 9 settembre 2013.
[9] Triple-E too costly to be competitive?, “Lloyd’s List”, 14 giugno 2013.
[10] USA. Lavoro pagato sempre meno, “Rai24 News”, 09.09.2013, che cita il titolo del “Washington Post” How recession have turned middle-class jobs into low-wage jobs.
[11] Il riferimento alla vicenda delle superpetroliere è contenuto nella postfazione che Gian Enzo Duci, Presidente di Assagenti a Genova, ha scritto per il mio libro (v. Sergio Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, Derive&Approdi Editore, Roma 2013). La sua tesi è che “l’intelligenza della merce” fa giustizia delle scelte degli uomini di costruire navi sempre più grandi. Così come le superpetroliere da 400/500 mila tonnellate sono apparse sul mercato e poi sono sparite quando non erano più competitive, così potrà accadere con i giganti del container. Sarà la merce a decidere.
[12] Diego Valiante, Come è cambiato il mercato delle merci, su www.lavoce.info, 06.09.2013.
[13] Diego Valiante è responsabile della ricerca su mercati dei capitali al Centre for European Policy Studies di Bruxelles.