Lavoro in porto, sindacati fermi su quota 1.080. La società che deve garantire a Genova la manodopera suppementare ai terminalisti per i picchi di traffico deve avere per i rappresentanti dei lavoratori questo numero di addetti, non uno in meno. Cioè, esuberi zero rispetto all’attuale organico di Culmv e compagnia Pietro Chiesa.

 

Lo sostengono, in coro, Enrico Ascheri (Filt-Cgil), Ettore Torzetti, (Fit-Cisl) e Marco Odone (Uiltrasporti), e la presa di posizione unitaria arriva a pochi giorni dal nuovo tavolo del prefetto che lunedì, chiuso il giro di consultazioni tecniche, affronterà il merito della discussione sulla gara per il lavoro in porto che dovrà contenere indicazioni anche sul numero di addetti.

 

Il tempo stringe: entro fine marzo l’Autorità portuale deve presentare il bando di una gara che i sindacati non avrebbero mai voluto ma che allo scalo è stata imposta dal ministro Altero Matteoli che considera l’attuale regolamentazione – fondata sul “patto per il lavoro” siglato tra terminalisti e compagnie – non rispondente alla legge nazionale.

 

«Quel patto – dicono ora i sindacati – non era solo un’intesa tra privati. Era stato avvallato dall’Autorità portuale e anche il ministero aveva dato il suo via libera». Come a dire: non siamo noi ad aver cambiato le carte in tavola. Ma il ministero, a quanto risulta dalle richieste avanzate nei giorni scorsi all’Autorità portuale, sostiene invece che non era a conoscenza della “peculiarità” genovese, e che questa ora va sanata. L’intervento del governo, peraltro, è arrivato dopo le inchieste della magistratura.

 

Comunque sia, oggi lo scalo si trova a dover cambiare la propria organizzazione del lavoro bandendo entro fine mese la gara pubblica per individuare il soggetto autorizzato – secondo l’articolo 17 della legge sui porti – a fornire il lavoro a tutti i terminal quando i soli dipendenti, a causa dei picchi di traffico, non bastano. E se gara deve essere – «noi non l’avremmo fatta, e decideranno la Culmv e la Pietro Chiesa se partecipare oppure no» – i sindacati ci tengono a mettere qualche paletto: «Chiediamo – dicono Ascheri, Torzetti e Odone – la difesa degli attuali livelli occupazionali, il mantenimento dell’unicità della Compagnia che non deve essere spaccata in più società, la salvaguardia dei salari (e quindi il riconoscimento pieno della cassa integrazione, ndr.)».

 

Di fatto, al di là delle questioni formali, la richiesta è quella di mantenere l’attuale organizzazione e gli attuali organici, con i lavoratori temporanei pari a 1080 unità. Troppi, ha sostenuto nei giorni e mesi scorsi il sindaco Marta Vincenzi, secondo cui gli organici sono cresciuti a dismisura col beneplacito dei terminalisti che, così, potevano evitare di fare nuove assunzioni.

 

«Chi dice così – affermano i tre rappresentanti dei lavoratori – non conosce l’organizzazione dello scalo genovese che, grazie al lavoro della prefettura, è ora stata ben chiarita. Il numero di 1.080 lavoratori è il minimo per garantire la copertura dei “picchi” di traffico. Nessun terminalista può permettersi di assumere più persone di quanto ne conti adesso poiché queste resterebbero inoccupate per troppi giorni. Questo è anche uno degli effetti della frammentazione dello scalo in tanti terminal, con la conseguente impossibilità per i lavoratori dipendenti di spostarsi da una banchina all’altra a seconda dell’andamento dei traffici».

 

Rimane il fatto che ai lavoratori temporanei dell’azienda regolamentata all’articolo 17 della legge sui porti- quello per cui sarà bandita la gara – è riconosciuta la cassa integrazione per i giorni non lavorati. Di qui l’esigenza di ridurre al minimo il numero degli addetti ex articolo 17 perché i costi del porto non pesino eccessivamente sui conti dello Stato e quindi sulle tasche dei contribuenti. «E anche qui – dicono Ascheri, Torzetti e Odone – va sfatato un mito. Percentualmente, rispetto al numero dei lavoratori portuali, le richieste di integrazione del salario a Genova sono ben inferiori di quelle di altri scali».

 

«Concludendo – dicono i tre – non esiste un unico modello di portualità italiana, negli anni ogni scalo ha cercato una sua via nell’applicazione della legge 84/94. La strada imboccata da Genova non è peggiore, anzi, di quella applicata da altri».

 

(da: shippingonline.ilsecoloxix.it del 05.03.2009)