Lavoro in porto, sindacati fermi su quota 1.080. La società che deve garantire a Genova la manodopera suppementare ai terminalisti per i picchi di traffico deve avere per i rappresentanti dei lavoratori questo numero di addetti, non uno in meno. Cioè, esuberi zero rispetto all’attuale organico di Culmv e compagnia Pietro Chiesa.
Lo sostengono, in coro, Enrico Ascheri (Filt-Cgil), Ettore Torzetti, (Fit-Cisl) e
Il tempo stringe: entro fine marzo l’Autorità portuale deve presentare il bando di una gara che i sindacati non avrebbero mai voluto ma che allo scalo è stata imposta dal ministro Altero Matteoli che considera l’attuale regolamentazione – fondata sul “patto per il lavoro” siglato tra terminalisti e compagnie – non rispondente alla legge nazionale.
«Quel patto – dicono ora i sindacati – non era solo un’intesa tra privati. Era stato avvallato dall’Autorità portuale e anche il ministero aveva dato il suo via libera». Come a dire: non siamo noi ad aver cambiato le carte in tavola. Ma il ministero, a quanto risulta dalle richieste avanzate nei giorni scorsi all’Autorità portuale, sostiene invece che non era a conoscenza della “peculiarità” genovese, e che questa ora va sanata. L’intervento del governo, peraltro, è arrivato dopo le inchieste della magistratura.
Comunque sia, oggi lo scalo si trova a dover cambiare la propria organizzazione del lavoro bandendo entro fine mese la gara pubblica per individuare il soggetto autorizzato – secondo l’articolo 17 della legge sui porti – a fornire il lavoro a tutti i terminal quando i soli dipendenti, a causa dei picchi di traffico, non bastano. E se gara deve essere – «noi non l’avremmo fatta, e decideranno la Culmv e
Di fatto, al di là delle questioni formali, la richiesta è quella di mantenere l’attuale organizzazione e gli attuali organici, con i lavoratori temporanei pari a 1080 unità. Troppi, ha sostenuto nei giorni e mesi scorsi il sindaco
«Chi dice così – affermano i tre rappresentanti dei lavoratori – non conosce l’organizzazione dello scalo genovese che, grazie al lavoro della prefettura, è ora stata ben chiarita. Il numero di 1.080 lavoratori è il minimo per garantire la copertura dei “picchi” di traffico. Nessun terminalista può permettersi di assumere più persone di quanto ne conti adesso poiché queste resterebbero inoccupate per troppi giorni. Questo è anche uno degli effetti della frammentazione dello scalo in tanti terminal, con la conseguente impossibilità per i lavoratori dipendenti di spostarsi da una banchina all’altra a seconda dell’andamento dei traffici».
Rimane il fatto che ai lavoratori temporanei dell’azienda regolamentata all’articolo 17 della legge sui porti- quello per cui sarà bandita la gara – è riconosciuta la cassa integrazione per i giorni non lavorati. Di qui l’esigenza di ridurre al minimo il numero degli addetti ex articolo 17 perché i costi del porto non pesino eccessivamente sui conti dello Stato e quindi sulle tasche dei contribuenti. «E anche qui – dicono Ascheri, Torzetti e Odone – va sfatato un mito. Percentualmente, rispetto al numero dei lavoratori portuali, le richieste di integrazione del salario a Genova sono ben inferiori di quelle di altri scali».
«Concludendo – dicono i tre – non esiste un unico modello di portualità italiana, negli anni ogni scalo ha cercato una sua via nell’applicazione della legge 84/94. La strada imboccata da Genova non è peggiore, anzi, di quella applicata da altri».